E’ notizia di pochi giorni fa della tragica morte di Robert Enke, portiere della nazionale tedesca.
La notizia triste di per sé merita un approfondimento alla luce dello sport business e del marketing in esso usato.
Infatti negli ultimi mesi sono stati molti, troppi, i decessi di giovani atleti apparentemente felici e a cui nulla (di materiale) mancava.
La domanda quindi è sempre quella: "Perché?".
L’argomento assai complesso però può essere semplificato se si va all’origine del comportamento autodistruttivo di alcuni di questi atleti.
Lo sport-spettacolo o sport-business che dir si voglia, genera stress eccessivo causato da aspettative esasperate e ingiustificate.
Si caricano persone di giovane età di responsabilità che neppure in età adulta molte persone riescono a sostenere, queste persone dal carattere fragile, non supportate da un sostegno psicologico adeguato, finiscono con lo spezzarsi come un giunco cadendo nella droga, nel doping o nel più drammatico dei casi nel suicidio.
Esempi recenti in questo ambito sono stati Pantani, Vanderbrouke e Agustin Sagasti.
Molto importante quindi è l’ambiente circostante al campione (la società sportiva, la federazione, i consulenti personali) che non devono spremere come un limone l’atleta per trarne il massimo profitto, ma accudirlo in salute e infermità per renderlo persona migliore.
Questo è il compito dello sport tutto, lo show business può massimizzare i profitti senza snaturarne la missione.
Lo sfruttamento dell’immagine quindi non deve divenire uno sfruttamento dell’atleta e della sua personale sensibilità.
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