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12 novembre 2009

il suicidio Enke e la gestione dei campioni


E’ notizia di pochi giorni fa della tragica morte di Robert Enke, portiere della nazionale tedesca.

La notizia triste di per sé merita un approfondimento alla luce dello sport business e del marketing in esso usato.

Infatti negli ultimi mesi sono stati molti, troppi, i decessi di giovani atleti apparentemente felici e a cui nulla (di materiale) mancava.

La domanda quindi è sempre quella: "Perché?".

L’argomento assai complesso però può essere semplificato se si va all’origine del comportamento autodistruttivo di alcuni di questi atleti.

Lo sport-spettacolo o sport-business che dir si voglia, genera stress eccessivo causato da aspettative esasperate e ingiustificate.

Si caricano persone di giovane età di responsabilità che neppure in età adulta molte persone riescono a sostenere, queste persone dal carattere fragile, non supportate da un sostegno psicologico adeguato, finiscono con lo spezzarsi come un giunco cadendo nella droga, nel doping o nel più drammatico dei casi nel suicidio.

Esempi recenti in questo ambito sono stati Pantani, Vanderbrouke e Agustin Sagasti.

Molto importante quindi è l’ambiente circostante al campione (la società sportiva, la federazione, i consulenti personali) che non devono spremere come un limone l’atleta per trarne il massimo profitto, ma accudirlo in salute e infermità per renderlo persona migliore.

Questo è il compito dello sport tutto, lo show business può massimizzare i profitti senza snaturarne la missione.

Lo sfruttamento dell’immagine quindi non deve divenire uno sfruttamento dell’atleta e della sua personale sensibilità.

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